
PER SOPRAVVIVERE DOVETTERO CIBARSI DI CARNE UMANA
Il 13 ottobre del 1972, per l’appunto quasi mezzo secolo fa, un aereo Fokker F-27 precipitò nei pressi della Cordigliera delle Ande, per la precisione nel territorio del comune argentino di Malargüe. Il velivolo della Fuerza Aerea Uruguaiana era partito da Montevideo con 45 persone a bordo (si trattava del volo numero 571), nello specifico dall’aeroporto internazionale di Carrasco. Era diretto a Santiago del Cile e si schiantò a ben 4200 metri di altitudine. Il viaggio era stato prenotato da una giovane squadra di rugby, l’Old Christians Club che era composto da studenti universitari e che doveva disputare un incontro in territorio cileno. Team al completo, tecnici, familiari, amici e persino una persona estranea al match: questi erano i passeggeri di quell’aereo oltre all’equipaggio ovviamente.
Prima di continuare a leggere, di vedere il video ed esprimere qualsiasi giudizio, bisogna fare un esercizio: provare a immaginare di ritrovarsi improvvisamente sul ciglio dell’abisso e pensare cosa si è disposti ad accettare pur di non cadervi dentro per sempre. Perché questo è ciò che hanno fatto i protagonisti di questa vicenda per oltre due mesi: scendere a compromessi con il peggiore tabù dell’essere umano nel disperato tentativo di sopravvivere.
Delle 45 persone a bordo, dodici morirono in seguito all’incidente, mentre altri persero la vita a causa del freddo della notte oppure scivolando nei burroni nel tentativo di raggiungere gli altri superstiti. Non mancarono i feriti, curati da due studenti che frequentavano la facoltà di medicina; inoltre, per proteggersi dal freddo mentre dormivano, costruirono una sorta di barriera con le valigie prima di sistemarsi nei resti squarciati del velivolo.
Le ricerche durarono a lungo e i passeggeri rimasti in vita sopravvissero razionando le scorte di cibo e decidendo persino di nutrirsi dei cadaveri dei loro compagni morti, che erano stati sepolti nella neve. Due superstiti, Roberto Canessa e Fernando Parrado, consapevoli che le speranze di uscire vivi da quel luogo non erano più molte, decisero di tentare un temerario attraversamento a piedi delle Ande per cercare soccorsi.
Partenza della spedizione decisiva per raggiungere il Cile a piedi
Canessa rimase colpito dallo spettacolo che si presentò al ritorno: i suoi compagni emaciati, deboli, stanchi e sfiduciati. Il caldo dell’estate in arrivo li portava a passare la parte centrale della giornata all’interno della fusoliera e i compiti attribuiti erano svolti sempre più con lentezza, non solo per i fisici debilitati. Addirittura Canessa notò il “disordine” che ormai regnava all’esterno della fusoliera. Inoltre, la frustrazione e la tensione continuavano ad aumentare: i battibecchi erano quotidiani ma non si protraevano a lungo, perché solo l’unità del gruppo avrebbe dato loro la possibilità di salvarsi. Anche i rosari recitati tutte le sere non per tutti avevano ancora lo stesso significato: se all’inizio del disastro rappresentavano un modo per chiedere l’intercessione divina per la salvezza, per alcuni di loro era diventato un modo per prendere sonno, per altri un modo per passare il tempo, anche se per la maggioranza il rosario rimase un gesto religioso cui non rinunciare.
Ciò nonostante Canessa fu molto titubante a riprendere il discorso della spedizione, sperando che il C-47 li trovasse. Gli altri, però, furono irremovibili, anche perché convinti che dopo tanti giorni, le ricerche erano orientate al ritrovamento di corpi, non di persone vive. Cominciarono così a cucire con il materiale portato da Vizintin dalla coda il sacco a pelo che li avrebbe protetti durante le notti. Tuttavia, una volta terminato il sacco, Canessa continuò a prendere tempo: la situazione era drammatica, ma la fusoliera era una certezza difficile da lasciare, rispetto all’ignoto della spedizione. Continuò a trovare scuse, tanto che Fito Strauch ne parlò con Parrado, dicendo di essere disposto a partire lui al posto di Canessa.
La situazione si sbloccò il 10 dicembre, quando Turcatti morì: l’infezione alla gamba peggiorò ed era terribilmente debilitato, perché una volta rinunciato alla spedizione si nutrì pochissimo e si erano formate piaghe da decubito. Decisero così di preparare la spedizione finale e, la sera prima della partenza, Parrado disse ai cugini Strauch di utilizzare anche i corpi della madre e della sorella, se fossero rimasti senza viveri. La speranza dei sopravvissuti di portare a termine con successo una spedizione verso ovest alla ricerca di aiuti si fondava sulle indicazioni errate dell’altimetro e del pilota Lagurara.
Ritenendo di trovarsi in Cile, nella zona pedemontana oltre le cime delle Ande, credevano che il ripido pendio visibile verso ovest fosse l’ultima salita oltre la quale si trovavano le pianure del Cile. Era invece il fianco est di uno dei monti dello spartiacque tra Cile e Argentina; ciò significava che oltre quel pendio c’erano in realtà ancora montagne e montagne. Se i sopravvissuti lo avessero saputo, credibilmente avrebbero cercato la salvezza camminando in direzione est, verso le valli dell’Argentina; il cammino in quella direzione sarebbe stato tutto in discesa e molto meno ripido. È infatti questa la strada percorsa nei successivi decenni, a dorso di cavallo o di mulo, da tutte le spedizioni organizzate dai sopravvissuti e dalle persone interessate a visitare i luoghi della sciagura. Inoltre, a soli 20 km a est dal luogo del disastro si trovava il rifugio estivo Hotel Termas “El Sosneado”, che, pur essendo chiuso in quel periodo, era una solida struttura in muratura e conteneva viveri e legna da ardere.
Così, il 12 dicembre 1972, circa due mesi dopo il disastro, Parrado, Canessa e Vizintín diedero il via alla nuova spedizione per raggiungere il Cile a piedi. Per l’occasione, era stato appositamente cucito uno speciale sacco a pelo artigianale, ricavato dal materiale isolante della coda dell’aereo, per ripararsi dal freddo notturno. Impiegarono quasi tre giorni, invece di uno solo previsto, per raggiungere la cima del pendio, a un’altitudine di 4600 m, paragonabile a quella del Monte Rosa. Il primo ad arrivare fu Parrado, seguito da Canessa. Si accorsero allora che la realtà era diversa da quella che avevano immaginato: al di sotto della vetta si stendeva una sterminata selva di picchi montuosi coperti di neve. Resisi conto che la distanza da percorrere sarebbe stata molto superiore a quanto preventivato, Canessa e Parrado decisero quindi che Vizintín sarebbe tornato all’aereo, perché i viveri che si erano portati appresso sarebbero bastati solo per due persone. Dopo la separazione da Vizintin, Parrado e Canessa camminarono per altri sette giorni. Dalla prima cresta era sembrato loro di vedere in lontananza, a più di dieci chilometri di distanza, una valle tra le montagne; si diressero quindi in quella direzione sperando di trovare il corso di un fiume che li avrebbe condotti più in fretta verso zone abitate. Riuscirono effettivamente a scendere, con enorme difficoltà, nella valle scavata tra le montagne dal Rio Azufre; percorsero l’ultimo tratto verso il fiume lasciandosi scivolare a mo’ di slitta. Raggiunto il corso d’acqua, Parrado e Canessa ne seguirono per alcuni giorni la riva sinistra, prima nella neve e poi, man mano che scendevano di quota, tra le rocce.
Incontrarono i primi segni di presenza umana: i resti di una scatoletta di latta e poi, finalmente, alcune mucche al pascolo. Pur sapendo di essere ormai vicini alla salvezza, si fermarono, esausti e con Canessa che ormai non sembrava più in grado di proseguire. Quella sera, mentre riposavano sulla riva del fiume, a Parrado sembrò di scorgere in lontananza, al di là del Rio Azufre ingrossato dallo scioglimento delle nevi, un uomo a cavallo. Urlarono per richiamarne l’attenzione, ma l’uomo si allontanò dopo aver gridato qualcosa che non riuscirono a comprendere. Tuttavia, il giorno dopo videro tre uomini a cavallo che li guardavano sorpresi dall’altra parte del fiume; i due giovani tentarono di urlare chi erano e da dove arrivavano ma, a causa del rumore dell’acqua del torrente, non riuscirono a farsi capire. Allora uno dei tre uomini, il mandriano Sergio Catalán, scrisse su un foglio di carta:
(ES)
«Va a venir luego un hombre a verlos. ¿Que es lo que desean?»
(IT)
«Più tardi arriverà un uomo a incontrarvi. Cosa desiderate?»
(Sergio Catalán)
Il mandriano arrotolò il biglietto attorno a un sasso e lo lanciò dall’altra parte del fiume.
Parrado a sua volta vi scrisse con un rossetto da labbra il seguente messaggio:
(ES)
«Vengo de un avión que cayó en las montañas. Soy uruguayo. Hace 10 días que estamos caminando. Tengo un amigo herido arriba. En el avión quedan 14 personas heridas. Tenemos que salir rápido de aquí y no sabemos como. No tenemos comida. Estamos débiles. ¿Cuándo nos van a buscar arriba?. Por favor, no podemos ni caminar. ¿Dónde estamos?.»
(IT)
«Vengo da un aereo che è caduto nelle montagne. Sono uruguaiano. Sono dieci giorni che stiamo camminando. Ho un amico ferito. Nell’aereo aspettano 14 persone ferite. Abbiamo bisogno di andarcene velocemente da qui e non sappiamo come. Non abbiamo da mangiare. Siamo debilitati. Quando ci vengono a prendere? Per favore, non possiamo più camminare. Dove siamo?»
(Fernando Parrado)
Parrado aggiunse inoltre sul retro del foglio un’ultima nota: ¿Cuando viene?, (Quando arriva?). Scritto il biglietto, Parrado lo riarrotolò intorno a un sasso e lo lanciò a Catalán. Raccolto il sasso e letto il biglietto l’uomo sobbalzò e fece il gesto di aver capito e che avrebbe cercato aiuto. Prima di lasciarli, il mandriano lanciò loro alcune pagnotte che aveva con sé, che Parrado e Canessa divorarono immediatamente. Catalán si diresse allora a cavallo verso ovest per raggiungere il posto di polizia (tenuto dai Carabineros cileni) del paese di Puente Negro. Poco dopo notò sul lato sud del fiume un altro dei mandriani che, come lui, tenevano il bestiame al pascolo in una malga nella località di Los Maitenes. Catalán lo informò della situazione e gli chiese di raggiungere Parrado e Canessa e di portarli a Los Maitenes, mentre lui sarebbe andato a Puente Negro.
Mentre finalmente Parrado e Canessa venivano soccorsi e portati nella malga di Los Maitenes, dove furono curati e nutriti, Catalán percorse il Rio Azufre fino alla confluenza con il Rio Tinguiririca; attraversato un ponte sul fiume, si trovò sulla strada che collegava San Fernando e Puente Negro alla località di villeggiatura delle Termas del Flaco; si fece dare un passaggio da un autocarro fino a Puente Negro dove avvertì i carabineros, che a loro volta avvertirono il colonnello Morel, comandante del reggimento di truppe da montagna Colchagua (che era il nome della provincia) di stanza a San Fernando.
Pochi giorni dopo gli altri i superstiti furono salvati!
Un video che parla del terribile disastro aereo avvenuto nel 1972
che storia! grazie di avercela raccontata 🙂