Vienna, Luglio 1934
Il sole stava per sorgere sulla città dei musicisti. Tonalità oro e arancio pennellavano il cielo terso diffondendo il loro bagliore sopra l’argenteo nastro del Danubio. Presto le prime luci dell’alba avrebbero sconfitto l’oscurità. Al numero diciannove di Berggasse strasse, nel IX distretto comunale di Vienna, il padrone di casa, solitamente mattiniero, dormiva ancora. L’indagine, che aveva iniziato quasi per gioco mesi prima, stava sconvolgendo la sua vita, le sue sicurezze. Ciò che aveva scoperto lo rendeva inquieto ed i pensieri che lo turbavano aumentavano ogni giorno di più. Perciò, quando spuntò il sole, le imposte dello studio erano ancora chiuse. Quella mattina il dottore avrebbe ritardato l’apertura del suo ambulatorio.
Herr Professor, come lo chiamavano i colleghi, aveva trasferito lo studio in quell’appartamento nel 1908. Lo aveva voluto proprio di fronte alla sua abitazione, per comodità. Era spazioso e le finestre si affacciavano su un cortile interno, ampio e tranquillo, dove regnava incontrastato un enorme castagno che ombreggiava il patio. Le pareti dello studio erano ricoperte di quadri, fotografie ed onorificenze e numerosi tappeti ne rivestivano il pavimento di legno. Un’ampia libreria a vetri padroneggiava la stanza, era gremita di testi di storia antica, religione e filosofia, che ormai superavano in gran numero quelli di medicina. La sala era ingombra di oggetti antichi ed una folla di statuette invadeva ogni superficie libera, tanto che a prima vista, più che lo studio di un medico pareva quello di un archeologo. Al centro della stanza, un divano ricoperto da un tappeto orientale veniva usato dal dottore come lettino per i suoi pazienti, al lato del quale era posta una comoda poltrona dove si sedeva per ascoltarli. L’arredamento della stanza era completato da vasi di ogni foggia ed epoca e da una scrivania in legno pregiato, dietro alla quale spiccava il quadro di un faraone dall’aspetto enigmatico. Quando il dottore giunse al suo ambulatorio, era già mattina inoltrata. Fortunatamente quel giorno non aveva in programma alcuna visita. Negli ultimi anni aveva dovuto ridurre notevolmente la mole del suo lavoro. L’età avanzata ed una grave malattia lo avevano duramente provato. Nel 1923 gli era stato diagnosticato un tumore al palato che in poco tempo gli aveva compromesso anche la mascella. Nel corso degli anni aveva dovuto subire numerosi interventi, tuttavia, nonostante fosse notevolmente debilitato, non aveva rinunciato né al lavoro né ad una delle sue più gran di passioni: il sigaro. Da fumatore accanito qual era, ne fumava una mezza dozzina al giorno ed anche quella mattina, dopo una leggera colazione, si era subito acceso uno di quegli “amici sconsigliabili” che gli avrebbero tenuto compagnia durante l’intera giornata. Si sedette alla scrivania e pensò all’opera che aveva appena terminato di scrivere, il cui argomento esulava completamente dalla materia dei suoi studi. Tutto era iniziato per pura curiosità. Dopo la salita al potere di Hitler, nella testa del dottore si era fatta largo con insistenza una domanda ossessiva, martellante: “Perché in Germania era ricominciata la persecuzione contro gli ebrei?” L’antisemitismo non era la brutale prerogativa del nazismo, ma continuava a covare sotto le ceneri del tempo da sempre. Nel corso delle varie epoche, gli ebrei erano stati ripetutamente oppressi e perseguitati dai potenti di turno. Qual era il motivo di quei soprusi millenari? Forse sul popolo sorto dall’Esodo gravava qualche colpa oscura? Queste domande avevano preso forma nella testa del dottore e lo avevano spinto ad indagare la storia del popolo al quale lui stesso apparteneva. Per riuscire a dare delle risposte era risalito alle origini d’Israele, alla sua genesi. Nei pochi momenti di libertà che il lavoro gli concedeva, dapprima aveva iniziato ad approfondire la Bibbia e ad indagare la vita di Mosè, colui che aveva plasmato il Popolo Eletto. Ben presto, però, quello che era iniziato come un semplice svago divenne una ricerca ossessiva, al punto da assorbirlo oltre tutto il resto, oltre il suo stesso lavoro.
Quella stessa mattina, turbato e stanco per la notte insonne, si appoggiò allo schienale della poltrona e chiuse gli occhi ripensando a com’era nata quella sua curiosità sfociata in ossessione. Fin dall’adolescenza, Herr Professor era stato attratto da temi religiosi e filosofici. La Bibbia lo aveva da sempre affascinato. Nel corso degli anni aveva letto più volte il Sacro Testo, ma ad ogni rilettura, invece di trovare soddisfazione alla propria curiosità, sempre più domande avevano affollato i suoi pensieri. La figura di Mosè si era impressa nella sua mente fin da bambino e da allora non lo aveva più abbandonato. Il Profeta, la sua nascita e la sua storia lo perseguitavano come un fantasma irrequieto. Soprattutto la narrazione dell’Esodo riportata dal Libro Sacro non lo convinceva mai del tutto. C’erano troppe discordanze ed imprecisioni. Lo stesso Mosè, nella descrizione biblica gli pareva una figura doppia, un Giano bifronte: a volte era descritto come il più mansueto degli uomini, a volte era rappresentato collerico ed irascibile mentre sfogava la sua rabbia contro il popolo. Cosa nascondeva quell’uomo? Chi era veramente il Profeta? Tutto ciò che gravitava intorno alla sua figura era un enigma imperscrutabile, perfino il suo nome. La stessa etimologia del vocabolo “Mosheh” incuriosiva e alimentava i dubbi del dottore. Durante le sue ricerche aveva letto che alcuni linguisti avevano proposto una nuova tesi riferita a quel termine che la tradizione biblica traduceva con “salvato dalle acque”. Secondo loro, infatti, il termine non era di derivazione ebraica, ma risaliva alla lingua egizia e significava “bambino, figlio di”. Aprì gli occhi ed estrasse la Bibbia che teneva nel primo cassetto della sua scrivania. Prese a rileggere i passi che riguardavano l’infanzia di Mosè, mettendoli a confronto con quanto sostenuto nel libro “Il mito della nascita dell’eroe[1]”, dove l’autore affermava che tutti i popoli celebrassero i loro padri fondatori attraverso racconti leggendari. Così era stato per molti eroi: Sargon, Ciro, Romolo, Edipo e fra questi l’autore inseriva anche il nome di Mosè. In pratica la storia della cesta di vimini con il neonato Mosè in balìa delle acque del Nilo, altro non era che una creazione poetica, un “romanzo familiare”. Pensò che il primo eroe al quale si poteva far risalire un romanzo del genere era Sargon, re di Babilonia, che aveva regnato su quei territori all’incirca nel ventinovesimo secolo a. C. e la cui storia era simile a quella di Mosè. Rilesse alcuni brani che lo dimostravano:
“Sargon, il re potente io sono. Mia madre fu una vestale, mio padre non l’ho conosciuto … nella mia città Azupirani, che giace sulle rive dell’Eufrate, mia madre la vestale mi concepì. In segreto mi partorì. Mi pose in una cesta di giunchi, chiuse con pece il mio sportello e mi abbandonò alla corrente che non mi sommerse. La corrente mi portò dov’era Akki che attinge l’acqua […] Akki mi trasse fuori dall’acqua, mi allevò come suo figlio […] fece di me il suo giardiniere […] poi la dea Ishtar s’innamorò di me, divenni re[2].”
Nonostante le varie differenze annotate, la storia di Mosè emergeva come una variante di quella di Sargon. Quindi, anche l’infanzia del Profeta poteva essere una storia inventata, utilizzata per accrescere il mito del suo protagonista e per garantirgli un’ascendenza ebraica. In tal caso, chi era veramente Mosè? Quale segreto era rimasto celato all’umanità per millenni? Queste domande avevano progressivamente riempito le giornate del dottore, che finì per dedicarsi totalmente alla ricerca della verità sul Profeta. Se l’etimologia di “Mosheh” non fosse stata ebraica ma egizia e se l’infanzia descritta nella Bibbia fosse stata solo una leggenda? Se Mosè non fosse stato adottato dalla figlia del faraone, ma fosse nato in una famiglia egizia? L’idea che il padre del popolo ebraico potesse essere uno straniero lo tormentava ormai da tempo. Oltre a ciò, se il Profeta fosse stato realmente un egizio, sarebbe sorto un ulteriore quesito: perché un figlio del Nilo avrebbe dovuto mettersi a capo di una folla di schiavi stranieri e lasciare con loro il paese? A questa prima domanda se ne sarebbe aggiunta subito un’altra. L’Egitto era stato fin dai suoi albori un paese politeista, il suo pantheon era sempre stato affollato come un formicaio, quindi, il Profeta, il legislatore del Popolo Eletto, come avrebbe potuto essere egizio se aveva insegnato a Israele un rigoroso monoteismo? Se Mosè fosse stato per davvero un figlio del Nilo avrebbe dovuto educare il suo nuovo popolo ad adorare molti dèi, ma non era stato così. Come conciliare queste incongruenze? Questa domanda lo aveva assillato da molto tempo, almeno fino a quando non scoprì un saggio dei primi anni del novecento dedicato ad un faraone ignoto cancellato dalla storia. Quel testo lo aveva illuminato. La chiave di lettura era proprio quel re, la cui figura era rimasta sconosciuta alla storia per secoli. La sua riscoperta era avvenuta nel corso del XIX secolo grazie al lavoro di alcuni archeologi prussiani. Questi avevano dato un volto al sovrano misterioso che durante la XVIII dinastia era salito al trono d’Egitto imponendo una nuova religione al suo popolo. Quel re oscuro, cancellato dalla storia dai suoi successori a causa della riforma religiosa di cui fu l’artefice, era riemerso dalle sabbie del tempo, passando alla storia con l’epiteto di “faraone eretico”. Gli studiosi avevano riportato alla luce la vita di colui che aveva rotto le tradizioni millenarie egizie introducendo nel “Paese delle Due Terre[3]” un rigoroso monoteismo. Il suo regno era durato solo diciassette anni e dopo la sua morte, la nuova religione era stata spazzata via con il suo fondatore, eliminato dalla storia come se non fosse mai esistito. Questo, dunque, l’incipit di una scoperta rivoluzionaria: e se fosse stata quella l’origine dell’Esodo? Non era sicuro di quella tesi, la sua era solo un’ipotesi, non aveva prove concrete. Gli avrebbero creduto? Gli storici lo avrebbero deriso, la Chiesa osteggiato e gli ebrei ripudiato. Inoltre, se la storia di Mosè fosse stata un falso, chi e per quale scopo l’aveva scritta? Il dottore abbandonò la Bibbia sulla scrivania accanto ad altri libri lasciati disordinatamente uno sull’altro. Era in preda ad una profonda crisi: come poteva, lui stesso ebreo, privare Israele del suo eroe più grande ? Che cosa doveva fare? Troppe domande gli affollavano la mente. La sua teoria era come “una ballerina in equilibrio sulla punta di un piede[4]”, l’equilibrio era precario. Quel dilemma ormai lo attanagliava da mesi, era spaventato e non sapeva come comportarsi. Si diresse verso la libreria. Da un ripiano prese una statuina che rappresentava un uomo con in mano due tavole di pietra, poi proseguì verso lo specchio e rimase a lungo immobile a fissare la sua immagine riflessa. Dopodiché guardò la statuetta e, con sguardo triste, prese la sua decisione: non era ancora il momento di pubblicare il suo scritto.
Tornò alla scrivania, rivolse per l’ultima volta lo sguardo alla sua opera, poi aprì il cassetto e la ripose al suo interno chiudendo a chiave il tiretto. Per divulgare il suo lavoro più sofferto avrebbe atteso tempi migliori.
[1] Libro scritto da Otto Rank nel 1909.
[2] S. Freud, “L’uomo Mosè e la religione monoteistica”’;Exodus è stato ispirato da questo saggio.
[3] Alto e Basso Egitto.
[4] Cit. “L’uomo Mosè e la religione monoteista”.