Marmo di Carrara

«… lo Carrarese che di sotto alberga, ebbe tra ‘ bianchi marmi la spelonca per sua dimora…» (Dante Alighieri, Divina Commedia, Inferno XX).


Il marmo di Carrara (per i Romani marmor lunensis, “marmo di Luni”) è un tipo di marmo, è estratto dalle cave delle Alpi Apuane in territorio di Carrara, universalmente noto come uno dei marmi più pregiati.

Storia
Le cave di pietra delle Alpi Apuane erano probabilmente già utilizzate durante l’età del Ferro dai Liguri di Ameglia (località Cafaggio, SP). La necropoli di questo sito, a pochi chilometri a sud-ovest della colonia romana di Luna, è datata al IV secolo a. C. Il sito è caratterizzato da sepolture a incinerazione poste entro cassetta (cista) di lastre di pietra scistosa provenienti dal vicino promontorio del Corvo, ove sono pure presenti giacimenti di marmo bianco. Non a caso, la seconda fase di utilizzo del cimitero (I – II secolo d.C.), presenta cremazioni, ma pure sepolture a inumazione nella nuda terra con una rudimentale cassa di copertura composta da materiali di recupero; fra di essi, appunto, frammenti di marmo.
L’attività estrattiva vera e propria si sviluppò a partire dall’epoca romana, e conobbe il maggiore sviluppo sotto Giulio Cesare (48-44 a.C.). L’esportazione, che avveniva tramite il porto di Luni (ragion per cui il marmo delle Alpi Apuane è detto, in archeologia, marmo lunense), assunse allora un’entità tale da rifornire le maestranze preposte alla costruzione delle maggiori costruzioni pubbliche di Roma e del suo impero e di numerose dimore patrizie. Delle cave più antiche, distribuite nei bacini di Torano, Miseglia e Colonnata, non resta molto, poiché l’attività estrattiva protrattasi nei secoli ha causato la loro progressiva distruzione. In tal modo, cave come quella di Polvaccio e Mandria (Torano) e Canalgrande (Miseglia) sono andate perdute. Sono, invece, ancora integre le cave di La Tagliata (Miseglia) e Fossacava (Colonnata). Dal V secolo l’attività estrattiva subì un periodo di stasi a seguito delle invasioni barbariche. Più tardi, con la maggiore diffusione del cristianesimo, il marmo fu richiesto in grandi quantità per l’edificazione degli edifici religiosi e per il loro arredo interno.
La fervente attività delle cave si dovette soprattutto ai Maestri comacini, a Nicola e a Giovanni Pisano, che lo utilizzarono per le loro opere nell’Italia centrale. Durante il Rinascimento fu il marmo utilizzato da Michelangelo, che veniva a scegliere personalmente i blocchi su cui lavorare. Nel XX secolo si fece ampio uso del marmo di Carrara durante il fascismo: Mussolini donò perfino del marmo per una delle due moschee della Spianata del Tempio di Gerusalemme.

Le cave

Le cave sono luoghi dove da molti secoli avviene l’escavazione e la lavorazione del marmo e possono essere di due tipi: chiuse e a cielo aperto. Per il modo con il quale viene prelevato il marmo, la profondità di prospettiva delle pareti bianche, gli ampi spazi, la precisione simmetrica dei gradoni, i piani di lavorazione, sembrano gradinate di anfiteatri.

Escavazione e lavorazione del marmo


L’escavazione del marmo nelle Alpi Apuane risale ad epoche assai remote (I secolo a.C.) e ha subito nel secolo scorso profonde trasformazioni. Anticamente l’escavazione avveniva con metodi ed utensili molto semplici, quali picconi e piccozze, e con gran dispendio di tempo e lavoro per ottenere risultati modesti. Le indagini archeologiche hanno restituito alcuni degli strumenti impiegati nel corso del tempo, oggi conservati in gran parte al Museo del Marmo e dei Beni Culturali della città di Carrara. In antico, il lavoro essenzialmente manuale, era svolto da una manodopera costituita in gran parte da condannati a lavori di fatica, schiavi e cristiani. I primi cavatori sfruttavano le fratture naturali della roccia nelle quali inserivano dei cunei di legno di fico che poi bagnavano con acqua, la naturale dilatazione provocava il distacco del masso. Per ottenere blocchi di dimensioni stabilite, i Romani ricorsero alla tecnica della “formella”. Si praticava nel masso prescelto, lungo la linea di taglio, una scanalatura profonda 15–20 cm nella quale s’inserivano poi dei cunei di ferro che, percossi ripetutamente e a tempo, determinavano il distacco di blocchi di 2 m di spessore. Tali tecniche estrattive e quelle di lavorazione, come la segatura manuale, rimasero pressoché inalterate anche dopo la scoperta della polvere da sparo, il cui impiego si rivelò più dannoso che utile; infatti il marmo risultava spesso così frantumato da perdere qualsiasi valore commerciale. Solo in seguito con l’utilizzo delle mine con l’operazione chiamata la Varata (evento che lasciava tutti i lavoratori con il fiato sospeso) si poté distaccare una grande quantità di marmo senza danneggiare il prodotto stesso. La vera e grande rivoluzione nella tecnica estrattiva avvenne alla fine dell’Ottocento con le invenzioni del filo elicoidale e della puleggia penetrante. Il filo di acciaio è un cavo di 4–6 mm di diametro, ottenuto dalla torsione ad elica di tre fili. Le scanalature così determinate hanno la funzione di trasportare e distribuire, lungo il taglio eseguito dal cavo, l’acqua e la sabbia silicea, originariamente proveniente da Massaciuccoli, che servono all’azione abrasiva. Il filo elicoidale, disposto in circuito su speciali pulegge di rinvio fissate ad appositi paletti detti potò, è lungo in genere alcune centinaia di metri e si muove ad una velocità di 5–6 m/s, mentre incide il marmo ad un ritmo di 20 cm l’ora. La puleggia penetrante è un disco d’acciaio caratterizzato sulla circonferenza, da una scanalatura e da piccoli denti diamantati. Mediante questi due geniali accorgimenti tecnici la puleggia, scorrendo su un apposito strumento a cremagliera chiamata “macchinetta” che ne consente il regolare e continuo abbassamento, assolve contemporaneamente a due funzioni: mentre penetra nel marmo trascina nella scanalatura il filo elicoidale che provoca il taglio del blocco.
Prima di cominciare a tagliare a monte e iniziare sul piazzale qualsiasi lavoro, bisognava liberare la montagna da quella parte di roccia resa inservibile dall’alterazione superficiale. Per questo lavoro di agilità e perizia interveniva il “Tecchiaiolo” il quale aveva il compito di esaminare da vicino il marmo, liberandolo delle parti pericolanti: per fare questo doveva calarsi, appeso ad una fune, davanti al fronte di cava. Il taglio al monte consisteva nell’isolare dal corpo marmoreo che costituisce il giacimento, una gigantesca porzione di roccia, detta bancata, di forma e dimensioni definite in funzione dei blocchi che si vogliono ottenere. Separata la bancata dalla massa rocciosa, i cavatori procedevano al suo ribaltamento sul piazzale di cava. Questa impressionante operazione presentava notevoli difficoltà e la sua esecuzione comportava seri rischi. Sul piazzale, intanto, si preparava il cosiddetto “letto” costituito da un cumulo di fini detriti di marmo misti alla fanghiglia prodotta da lavorazioni precedenti, per ammortizzare la caduta della bancata e limitarne le rotture. Una volta sul piazzale, la bancata veniva lavata per essere esaminata dai cavatori più esperti che ne individuano le impurità e segnavano i punti dove effettuare eventuali tagli. L’operazione successiva era il ridimensionamento in blocchi di dimensioni commerciali con la tagliatrice a filo diamantato. Un’operazione delicatissima: ogni errore, infatti, rischiava di diminuire la resa dell’intera bancata e produrre blocchi di valore inferiore a quello che la qualità del marmo faceva sperare. Poi entravano in scena i riquadratori, che a suon di subbia e martello, cercavano di dare una forma quadrata al blocco. Era un lavoro difficile, pesante, e quei cavatori dovevano essere forti, pazienti e capaci. Infine venne introdotto il filo diamantato, attualmente in uso, la cui introduzione inizialmente creò problemi di sicurezza lavorativa causa la facilità di sganciamento, problematica ora corretta. Una volta estratto il blocco di marmo dalla cava, viene segato in lastre (2, 3 cm o più di spessore).

Il trasporto del marmo nel tempo

Una volta riquadrati, i blocchi dovevano scendere a valle fra colate di detriti marmorei chiamati “ravaneti”. Storicamente la discesa dei blocchi lungo i ripidi pendii rocciosi delle cave ha rappresentato un’impresa non priva di rischi e di problemi tecnici, ed è stata portata avanti con metodi via via più evoluti a mano a mano che le condizioni economiche e sociali della regione si evolvevano. Il primo rudimentale metodo di trasporto si chiamava “abbrivio” e consisteva nel fare rotolare il masso giù dalle pendici, senza alcun controllo, fino a farlo fermare su un letto di detriti più fini. Il procedimento, ampiamente praticato nei tempi antichi, era tanto pericoloso che fu vietato per legge quando si affermò il metodo della “lizzatura“. La lizzatura è un metodo tradizionale di trasporto del marmo su slitta, ancora praticato nei primi decenni del XX secolo. Fondamentalmente il blocco di marmo veniva saldamente fissato ad una slitta di legno trattenuta a monte da un sistema di funi scorrevoli. La slitta veniva gradualmente abbassata lungo il pendio da una squadra di uomini che allentava le funi e controllava il percorso della slitta. Alla lizzatura partecipavano dodici uomini: era un lavoro di squadra molto rischioso. Davanti alla slitta si poneva il capo lizza, in genere l’operaio più esperto della squadra, con il delicato compito di controllare che la discesa procedesse per il meglio. Il capo lizza disponeva i “parati” sul terreno davanti alla lizza, e dava il segnale ai mollatori di allentare o stringere i cavi al momento giusto. I “parati” erano robuste assi di legno di ciliegio, insaponate dal più giovane della compagnia, che erano aggiunte anteriormente al carico mano mano che questo procedeva nella discesa, consentendogli di scivolare senza incontrare ostacoli. Un’altra figura molto importante nella “lizza” era il “mollatore”, chiamato anche “l’uomo del piro”, che aveva il compito di allentare lentamente le corde che trattenevano verso l’alto il blocco, in modo che il carico scendesse lentamente e senza prendere velocità. La lizzatura era una delle fasi più rischiose dell’intero ciclo produttivo: se il carico si liberava dalle corde, e prendeva velocità, era frequente che travolgesse uno o più uomini della squadra, con gravi conseguenze. Il lavoro della lizzatura finiva nel momento in cui il carico arrivava al “poggio”, che era il luogo dove i blocchi di marmo venivano liberati dalle corde e caricati sui carri trainati dai buoi che avevano il compito di trasportare il marmo ai laboratori, alle segherie o al vicino Porto di Marina di Carrara.

Ecco un video sulla lizzatura realizzato da Cave di Marmo Fantiscritti – https://www.facebook.com/watch/?v=687898444732018


A partire dagli ultimi decenni del XIX secolo si affermò il trasporto del marmo su rotaia, grazie alla costruzione di un apposito tracciato ferroviario poco dopo l’Unità d’Italia. La Ferrovia Marmifera fu adibita per quasi un secolo al trasporto del marmo in concorrenza con la tradizionale lizzatura, i convogli di carri trainati da buoi e i primi tentativi di trasporto su strada con trattrici e su gomma. Costruita fra il 1876 e il 1890 la ferrovia collegava i principali centri di stoccaggio dei blocchi dei tre bacini marmiferi carraresi – Torano, Miseglia e Colonnata – con le segherie in pianura, il porto di Marina di Carrara e la rete ferroviaria nazionale. La costruzione del tracciato rappresentò un’impresa ingegneristica considerevole dati i mezzi dell’epoca: si dovevano superare 450m di dislivello per una lunghezza totale di 22 km con una pendenza massima del 6 per cento, attraversando un gran numero di ponti e ferrovie. La “marmifera” operò a lungo in sostituzione della rete stradale, ma la costruzione di sempre più numerose strade di arroccamento e la conseguente concorrenza con i moderni mezzi di trasporto su gomma la rese antieconomica. Dopo un breve travaglio la ferrovia cessò la sua attività nel 1964 e il suo tracciato venne in gran parte smantellato. Alcuni tratti vennero trasformati in strade. Il trasporto dei marmi su strada iniziò ad affermarsi approssimativamente a partire dal 1920, con l’ampliamento e l’ammodernamento delle strade dirette verso i bacini di estrazione. I primi mezzi di trasporto meccanizzati furono “trattrici” a combustione interna, tradizionalmente chiamati “ciabattone”. A partire dal dopoguerra il trasporto su gomma divenne predominante, soprattutto con l’introduzione dei camion di fabbricazione tedesca Magirus-Deutz. Attualmente tutto il marmo escavato dalle cave viene trasportato su gomma fino al porto di Marina di Carrara o smistato ad altre destinazioni.

Destinazione del marmo estratto dalle cave

Una parte minoritaria del marmo estratto viene esportato in forma grezza. Quasi tutto il resto del marmo estratto viene invece trasformato in lastre di diverso spessore e poi lucidato a fornire i più importanti ed esclusivi progetti in tutto il mondo. Per effettuare le operazioni di segagione e lucidatura sono in attività nella Provincia di Massa Carrara centinaia di segherie le quali, per attrezzatura e per il grado di specializzazione raggiunto, lavorano marmi e graniti provenienti da tutto il mondo. In ogni segheria funzionano particolari telai dotati di lame d’acciaio intervallate alla distanza corrispondente allo spessore richiesto dalle lastre. Ad ogni telaio è impresso un movimento orizzontale ed un continuo abbassamento, mentre le lame, realizzate con una miscela di diamanti e acciaio servono a creare l’azione abrasiva completando il taglio. A Carrara ha sede un “Istituto Professionale di Stato per l’Industria e l’Artigianato del Marmo”, che è in grado di conferire una qualificazione specifica ai lavoratori di questo settore.

Minerali del marmo di Carrara


All’interno delle cavità del marmo sono frequentemente riscontrabili cristalli perfetti e limpidissimi di numerose specie mineralogiche. Nonostante la piccolezza delle cristallizzazioni questi campioni sono particolarmente richiesti dai collezionisti a causa della bellezza e della trasparenza dei cristalli e del pregevole contrasto che si ha tra i cristalli colorati e la matrice bianca. Alcuni minerali trovati nel marmo sono:

quarzo ialino
dolomite
calcite
gesso
fluorite
zolfo nativo
albite

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