Lunigiana, terra dov’è nata la Divina Commedia

Mentre scrivo, mi immagino la Lunigiana come una donna dal volto fiero che fa da levatrice alla Divina Commedia. Dante ha trovato in questo angolo di Toscana, al confine con la Liguria, la pace e la forza per far crescere il suo pargolo, un’opera dalle radici salde che avrebbe cambiato per sempre la letteratura mondiale.
Come sostengono molti dantisti contemporanei, l’opera più importante del Sommo Poeta è stata scritta a partire dal 1306 e siamo certi che, in quell’anno, Dante era in Lunigiana, come dimostra la pace firmata tra il vescovo-conte di Luni e i marchesi Malaspina, dai quali Dante aveva ricevuto la procura per rappresentarli.
La firma di Dante sull’atto della pace conferma inequivocabilmente che il 6 ottobre 1306 egli era in Lunigiana.
A mio avviso però c’è molto di più di quanto affermano i dantisti: non solo Dante scrisse la Divina Commedia in Lunigiana, ma fu proprio il marchese Moroello di Giovagallo a convincerlo a continuare l’opera, che in realtà aveva già iniziato a progettare a Firenze. Per spiegare quanto affermo voglio rivolgermi a un testimone prezioso, il Boccaccio, e alla cosiddetta Leggenda dei VII canti dell’inferno, che l’illustre letterato narra nel suo Trattatello in laude di Dante e nelle Esposizioni.
Prima però preferisco elencarvi alcuni dati storici al fine di inquadrare meglio il periodo in questione. Nel 1300, Dante era stato per due mesi priore nel governo del popolo che deteneva il potere a Firenze. Il poeta faceva parte della fazione dei guelfi bianchi. Per sua sfortuna, però, nel 1301, la discesa in Italia di Carlo di Valois, fratello del re di Francia (chiamato dal papa Bonifacio VIII, apertamente schierato dalla parte dei guelfi neri), portò a un cambio di governo e alla sconfitta dei bianchi, che per non essere imprigionati, dovettero lasciare Firenze.
Nel 1302, Dante fu condannato in contumacia, non avrebbe più rivisto la sua amata città.
Fu costretto a girovagare in Italia da esule e, proprio come ci conferma il documento della pace di Castelnuovo, nel 1306 era in Lunigiana.
Ecco cosa ci racconta il Boccaccio nel suo Trattatello in laude di Dante.
Dopo l’esilio, l’abitazione di Dante fu depredata dalla plebe. Questo avveniva per tutti i condannati politici, puniti in quanto nemici della città. La masnada di poveracci aveva assaltato la casa e saccheggiato tutti gli averi del Sommo Poeta. Per fortuna, sua moglie, Gemma Donati, aveva portato in un convento alcuni forzieri contenenti documenti e altre carte importanti del poeta.
Alcuni anni dopo questi tristi accadimenti, mentre Gemma (assieme al nipote Andrea Poggi, figlio di una sorella di Dante) cercava in quei forzieri alcuni documenti per tornare in possesso della dote matrimoniale, confiscatale dal governo, ebbe una gradita sorpresa. In quei bauli si trovava anche un “quadernuccio” con degli appunti di Dante: i primi VII canti dell’inferno. Andrea Poggi, nipote di Dante, li mostrò a un poeta di Firenze, “in quei tempi famosissimo dicitor per rime, Dino di messer Lambertuccio” (Dino Frescobaldi) e questo, capitone il valore, decise di farli avere all’autore.
Saputo che dimorava presso il marchese Moroello di Giovagallo, in Lunigiana, li fece recapitare a quest’ultimo.
Qui entra in scena il Malaspina di Giovagallo, nobile mecenate e amante della cultura (i Malaspina erano famosi per aver ospitato molti trovatori provenzali, quindi apprezzavano la poesia, la musica e la cultura in genere).
Da quanto riporta il Boccaccio, fu il marchese a convincere Dante a continuare nella stesura del suo poema, quindi a redigere il più grande capolavoro di tutti i tempi.
Boccaccio scrive che il marchese si accorse della meraviglia di quanto aveva scritto il poeta fiorentino: “Allora il pregò il marchese che gli piacesse di non lasciare senza debito fine sì alto principio”.
Probabilmente, dopo l’esilio, Dante era scorato e non pensava più a quei canti chiusi in un forziere a Firenze, aveva problemi più grandi da risolvere.
Se non vogliamo contestare o sminuire quanto detto dal Boccaccio, dobbiamo quindi ritenere che fu Moroello a comprendere la genialità di quei canti. Fu il marchese, “uomo assai intendente”, in quanto pratico a leggere e ad ascoltare il lavoro dei trovatori, a convincere Dante a riprendere la stesura dell’opera.
Ecco come racconta il Boccaccio nelle Esposizioni: “E avendo investigato e trovato che Dante era a quei tempi in Lunigiana con un nobile uomo de Malespini, chiamato il marchese Morruello, il quale era uomo intendente e in singularità suo amico, pensò di non mandargli a Dante, ma al marchese, che gliele mostrasse; e così fece, pregandolo che, in quanto potesse, desse opera che Dante continuasse la ‘mpresa, e, se potesse, la finisse. Pervenuti adunque li sette canti predetti alle mani del marchese ed essendogli maravigliosamente piaciuti, gli mostrò a Dante; e avendo avuto da lui che sua opera erano, il pregò gli piacesse di continuare la ‘mpresa. Al qual dicono che Dante rispuose: lo estimava veramente che questi, con altre mie cose e scritture assai, fossero, nel tempo che rubata mi fu la casa, perduti, e però del tutto n’avea l’animo e ‘l pensiero levato: ma, poiché a Dio è piaciuto che perduti non sieno, ed hammegli rimandati inanzi, io adopererò ciò che io potrò di seguitare la bisogna secondo la mia disposizione prima. E quinci, rientrato nel pensiero antico e reassumendo la ‘ntralasciata opera, disse in questo principio del canto VIII: «Io dico, seguitando» alle cose lungamente intralasciate.”
Allora perché Dante non fa mai cenno a questi primi VII canti scritti a Firenze e poi abbandonati a causa dell’esilio? Siamo sicuri che sia andata proprio così?
In realtà è lo stesso Dante che ci dà un indizio all’interno della Divina Commedia. Di fatti quando scelse di seguire il consiglio del marchese Malaspina, il poeta iniziò il canto VIII dell’inferno in questo modo:
«Io dico, seguitando, ch’assai prima…»
Dante qui ci indica che riprende il lavoro, che lo seguita, e questo probabilmente vuol dire che era stato interrotto, anche a causa delle sue disavventure politiche.
Nella sua Esposizione sulla Comedia di Dante, Boccaccio scrive:
“e sì ancora perché insino a qui non ha alcun’altra volta usato questo modo di continuarsi alle cose predette.”
Dante non inizia alcun altro canto in questo modo e mai lo farà in seguito. Per il Boccaccio questo indica che il canto VIII dell’inferno è un secondo inizio, il riscatto di Dante che trova il coraggio di rimettersi in gioco, e lo fa proprio in Lunigiana, dove l’inferno nasce a nuova vita e dove il Sommo Poeta, forse, imbastisce le linee guida di tutto il poema.
Ad onor del vero va ricordato che lo stesso Boccaccio ha alcuni dubbi su quanto raccontatogli dei sette canti, prima da Andrea Poggi e poi da Dino Perini, amico di Dante. Il dubbio principale sui canti scritti prima dell’esilio, riguarda il VI canto e la profezia di Ciacco, che anticipa la sconfitta dei Cerchi (guelfi bianchi) e la vittoria dei Donati (guelfi neri, avversari di Dante).
Se Dante avesse scritto questo canto prima del 1302 sarebbe per davvero un profeta, ma questo è poco credibile. In realtà, anche questa obiezione, fatta per primo dallo stesso Boccaccio e riproposta da numerosi dantisti, viene meno se consideriamo i primi VII canti come appunti, bozze, schizzi poi revisionati. Dante potrebbe aver aggiunto la profezia di Ciacco nel 1306, quando si trovava già in Lunigiana, e in questo modo verrebbe meno tutta la questione.
In effetti, molti dantisti sostengono che i primi canti dell’inferno si differenziano dagli altri per la forma, il contenuto e la struttura. Il poema composto nell’esilio, dal 1306-1307 fin quasi alla morte, lascerebbe così emergere le tracce di un «copione» primitivo poi andato perso. Le differenze sono così rilevanti, che uno studioso ha scritto: «ci sono due ingressi nell’Inferno, quasi due diversi inizi del poema. Prima si entra dalla porta scardinata, poi dalle porte della città di Dite». Le differenze interessano un po’ tutti gli aspetti del testo: dalla modalità del racconto, alla geografia infernale ancora poco precisa nei primi canti, fino all’ordinamento morale delle pene e dei peccati, che poi Dante dovrà in parte correggere. Tutto ciò potrebbe essere addebitato a un Dante ancora in rodaggio, però il fatto che il salto di qualità sia così netto a partire dal canto di Farinata, sembra suggerire l’esistenza di una differenza temporale nella stesura dei diversi canti.
Voglio essere ben chiaro. La Commedia che noi oggi leggiamo è quella che Dante ha scritto a partire dal 1306. Ciò nonostante l’ipotesi che in un periodo antecedente all’esilio, egli avesse almeno schizzato un abbozzo di poema, appare ragionevole alla luce di quanto sappiamo della sua personalità e della sua evoluzione ideologica e politica.
Scrive lo studioso Marco Santagata: «la Commedia che noi leggiamo, anche nei suoi primi canti, è stata scritta intorno al 1306-7; ciò che Dante può avere scritto in precedenza deve essere stato quasi integralmente rifatto. Quasi, perché nei primi canti della Commedia definitiva, in controluce, si intravede qualcosa della primitiva impostazione e perfino qualche tratto testuale superstite. Sono queste tracce che inducono ad affermare che l’ideazione del poema e le prime fasi di scrittura non possono essere posteriori al Convivio e al De vulgari eloquentia, composti tra il 1304 e il 1306. Non lo possono essere perché la visione dell’assetto politico-istituzionale della cristianità ancora riscontrabile nel prologo del poema stride con quella appena elaborata da Dante nei due trattati.»
Il progetto politico del Convivio, omogeneo per altro a quello del De vulgari, è così riassunto da Gianfranco Fioravanti: «I nobili d’Italia, al di là della loro disunione, nonostante le deviazioni di singoli membri, devono diventare quel che potenzialmente già sono e che sono effettivamente stati: il ceto che sotto l’egida dell’impero garantisce, contro le spinte centrifughe e disgregatrici dei nuovi poteri economici in primo luogo e di conseguenza politici, l’esistenza di una civilitas umana coesa e pacifica».
Scrive ancora Marco Santagata: «Il progetto presuppone che Dante abbia maturato, o stia maturando, l’idea della centralità dell’istituzione imperiale. Ebbene, nel 1306-7, lasciato il tavolo del Convivio per quello della Commedia, dimenticherebbe ciò che aveva appena sostenuto (e che poco dopo sosterrà con maggior forza ancora) per scrivere un poema che esordisce con dichiarazioni improntate a un ingiustificato guelfismo. L’impero romano non sarebbe stato creato, come ci aspetteremmo dall’autore del Convivio, come supremo garante della pace e della felicità umana in terra, ma in funzione della Chiesa e del papato.»
Molti studiosi sono scettici sull’attendibilità del racconto del Boccaccio, che io continuo a non voler derubricare a mera “leggenda”. Primo perché Boccaccio è scrupoloso nel citare le sue fonti e poi perché i riferimenti storici sono plausibili: cinque anni dopo il bando, Dante era effettivamente in Lunigiana presso Moroello; Dino Frescobaldi, come membro dell’oligarchia al potere, aveva sicuramente occasione di entrare in rapporto con il Malaspina, che in quel periodo era il capitano dell’esercito dei Neri fiorentini.
Ma c’è un altro elemento di cui dobbiamo tenere conto: l’amore di Dante per la Lunigiana e per i Malaspina, una riconoscenza che fa di Moroello il padrino dell’opera e della Lunigiana la levatrice. Un amore che si esprime in versi e terzine.
Sono moltissimi infatti i riferimenti alla Lunigiana e ai Malaspina in tutte le cantiche. Eccone alcuni esempi.
XX canto dell’inferno (versetti 46-51): dove sono citati i monti di Luni e lo Carrarese.
Aronta è quel ch’al ventre li s’atterga,
che ne’ monti di Luni, dove ronca
lo Carrarese che di sotto alberga,
ebbe tra ’ bianchi marmi la spelonca
per sua dimora; onde a guardar le stelle
e ’l mar non li era la veduta tronca.
XXIV canto dell’inferno (versetti 145-150): Il vapor di Val di Magra è proprio il Marchese Moroello di Giovagallo che aveva combattuto e vinto a Campo Piceno.
Tragge Marte vapor di Val di Magra,
che di torbidi nuvoli è involuto,
e con tempesta impetuosa et agra
sopra Campo Picen fia combattuto;
ond’ei repente spezzerà la nebbia,
sì ch’ogne Bianco ne sarà feruto.
XXXII canto dell’inferno (versetti 25-30): Il Tambernicchi (la Tambura) e la Pietrapana (Pania) sono due monti delle Alpi Apuane.
Non fece al corso suo sì grosso velo
di verno la Danoia in Osterlicchi,
né Tanaï là sotto ’l freddo cielo,
com’era quivi; che se Tambernicchi
vi fosse sù caduto, o Pietrapana,
non avria pur da l’orlo fatto cricchi.
XIX canto del purgatorio (versetti 142-145): Alagia Fieschi è la moglie del marchese Moroello di Giovagallo.
Nipote ò io di là, ch’ à nome Alagia,
buona da sè, pur che la nostra casa
non faccia lei per esemplo malvagia;
e questa sola di là m’ è rimasa.
III canto del purgatorio (versetti 49-51): qui si parla delle balze di Lerici, luogo che a quel tempo apparteneva alla Lunigiana storica.
Tra Lerice e Turbìa la più diserta,
la più rotta ruina è una scala,
verso di quella, agevole e aperta.
XVI canto del paradiso (versetti 73-78): Dante in questi versi racconta che anche le città possono morire e fa l’esempio di Luni, ormai impaludata e abbandonata dai propri cittadini e destinata all’oblio.
Se tu riguardi Luni e Orbisaglia
come sono ite, e come se ne vanno
di retro ad esse Chiusi e Sinigaglia,
udir come le schiatte si disfanno
non ti parrà nova cosa né forte,
poscia che le cittadi termine hanno
Più di tutti, però, va ricordato il Canto VIII del purgatorio che fa riferimento ai Malaspina dal versetto 109 al 139, un vero e proprio omaggio che dimostra l’affetto che Dante provava per la nobile casata.
L’ombra che s’era al giudice raccolta
quando chiamò, per tutto quello assalto
punto non fu da me guardare sciolta.
«Se la lucerna che ti mena in alto
truovi nel tuo arbitrio tanta cera
quant’ è mestiere infino al sommo smalto»,
cominciò ella, «se novella vera
di Val di Magra o di parte vicina
sai, dillo a me, che già grande là era.
Fui chiamato Currado Malaspina;
non son l’antico, ma di lui discesi;
a’ miei portai l’amor che qui raffina».
«Oh!», diss’ io lui, «per li vostri paesi
già mai non fui; ma dove si dimora
per tutta Europa ch’ei non sien palesi?
La fama che la vostra casa onora,
grida i segnori e grida la contrada,
sì che ne sa chi non vi fu ancora;
e io vi giuro, s’io di sopra vada,
che vostra gente onrata non si sfregia
del pregio de la borsa e de la spada.
Uso e natura sì la privilegia,
che, perché il capo reo il mondo torca,
sola va dritta e ’l mal cammin dispregia».
Ed elli: «Or va; che ’l sol non si ricorca
sette volte nel letto che ’l Montone
con tutti e quattro i piè cuopre e inforca,
che cotesta cortese oppinïone
ti fia chiavata in mezzo de la testa
con maggior chiovi che d’altrui sermone,
se corso di giudicio non s’arresta».
In questo canto, Dante incontra Corradino Malaspina di Villafranca, cugino di Moroello di Giovagallo e gli chiede se ha qualche notizia della Val di Magra o dei luoghi vicini. Dante poi elogia la cortesia dei Malaspina, celebrata dai nobili e dal popolo, così che è nota anche a chi non è mai stato là. Dante esalta la loro liberalità e la virtù guerresca, una casata che si basa sull’onore cavalleresco e il mecenatismo.
Non penso serva aggiungere altro, questi versi sono la chiara dimostrazione dell’amicizia e dell’affetto che Dante provava per i Malaspina. Voglio solo ricordare un’ultima cosa: mentre Dante aveva smarrito la dritta via entrando nella selva, la dinastia lunigianese “sola va dritta e ’l mal cammin dispregia”.
Dante non poteva fare elogio più grande alla famiglia, alla cui corte è nata la Divina Commedia.